“Elle”, un film di Paul Verhoeven, la recensione

Elle (id, Francia/Germania, 2016) di Paul Verhoeven con Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling, Virginie Efira, Judith Magre, Christian Berkel, Jonas Bloquet

Sceneggiatura di David Birke, dal romanzo “Oh” di Philippe Djian

Drammatico, 2h 10′, Lucky Red, in uscita il 23 marzo 2017

Voto: 5 su 10

Se, per ipotesi, l’ideazione di un film fosse inserita nella rosa dei test psicologici proiettivi e, per tanto, il prodotto finale venisse analizzato da uno specialista e, poi, interpretato per giungere a conoscenza del soggetto che lo ha creato, il quadro delineante la personalità di Paul Verhoeven riserverebbe, probabilmente, delle sconcertanti sorprese. La sua ultima fatica Elle, infatti, induce a pensare che il girone infernale dantesco nel quale si viene trascinati, non sia soltanto il racconto di una storia, quanto piuttosto una personale e turbante concezione dell’essere umano e del suo malsano rapportarsi con ciò che lo circonda. O forse no. Forse il regista ha semplicemente intuito che edificare una moderna Gomorra, eliminando però le bibliche “dieci persone giuste”, avrebbe garantito alla pellicola clamore e risonanza mediatica. Nella sua, ormai, famigerata vocazione provocatoria e nel suo sbandierato disprezzo per una morale che definisce “borghese”, il cineasta olandese reinterpreta il controverso romanzo “Oh…” di Philippe Djian, rendendo ancora più contorto un testo già di per sé sufficientemente spinoso.

elle-poster-italianoMichèle (Isabelle Huppert) viene violentata e picchiata brutalmente da uno sconosciuto ma, con il trascorrere dei giorni, elabora il trauma in modo del tutto inaspettato, arenandosi in un comportamento ambiguo ai limiti del patologico. Soggetta ad una sorta di Sindrome di Stoccolma, sviluppa nei confronti del suo aguzzino, che nel frattempo continua a perseguitarla, una sottomissione volontaria, rifiutandosi di denunciarlo e assecondando la sua ferocia. Imperturbabile al dolore fisico e dell’anima, questa donna divisa tra una carriera professionale di successo e una sfera privata da sempre consapevolmente scorretta, pare placare i propri demoni interiori soltanto quando trasformerà il suo giovane figlio in un assassino.

Si nutrono dei sospetti su quanto affetto Verhoeven possa sinceramente nutrire per il genere femminile; un dubbio legittimo, questo, che scaturisce dalla ossessiva aggressione fisica a cui le protagoniste dei suoi film vengono sottoposte: si pensi, per esempio, alla povera Molly in Showgirls o alla stessa Michèle, talmente vessata (non le risparmia neanche un incidente d’auto) da chiederci se giungerà viva fino alla fine della pellicola. Non stupisce, invece, che il regista abbia incontrato notevoli difficoltà nel realizzare Elle negli Stati Uniti, sia per quanto riguarda la raccolta dei finanziamenti necessari che per la disponibilità delle attrici americane nell’accettare il ruolo. Un rifiuto da lui interpretato come un ipocrita atteggiamento politically correct ma che, plausibilmente, potrebbe invece essere stato dettato dalla non condivisione del suo pensiero azzardato.

5

La reazione spiazzante di Michèle viene presentata come una sua particolare abilità nel trasformarsi da vittima in carnefice, con una rimarchevole nonchalance nel continuare la sua quotidianità come se nulla fosse accaduto e, anzi, con la studiata ricerca di un rapporto malato con il suo violentatore. In questo modo, però, Verhoeven resta egli stesso vittima della sua fama di regista scomodo quando, privo della profondità introspettiva di colleghi quali Steve McQueen (che nel suo Shame affronta con un criterio vincente un tema altrettanto “scomodo”), si lascia prendere la mano, veicolando, in maniera neanche tanto subliminare, un messaggio rischioso. Dimenticando che anche se un film è finzione, arrivando sullo schermo impatta nella mente non solo di chi non ha una psiche abbastanza stabile da capire che mai nessuna donna potrà restare affascinata dall’aver subito uno stupro, ma anche in quella di chi con quel trauma ci deve convivere ogni giorno e, magari, si trova anche nella condizione di dover convincere gli altri di essere stata davvero una vittima.

Concedendo il beneficio della benevolenza al regista e allo sceneggiatore David Birke, vale a dire che possa esserci stata una spensierata e compiaciuta leggerezza nel trattare l’argomento, non si può non sottolineare l’impressionante bravura della Huppert, alla quale va il merito di aver portato riconoscimenti e candidature prestigiose alla pellicola, tra cui la nomination come migliore attrice protagonista all’ultima edizione del premio Oscar. Decisamente una scelta coraggiosa la sua, portata avanti con coerenza e con totale disponibilità ad offrirsi al giudizio dello spettatore senza nessuna struttura di difesa o protezione, rendendo sopportabile quella disturbante vena cinica e quella inopportuna ironia che pervade tutta la pellicola. Durante la conferenza stampa, Paul Verhoeven ci ha resi partecipi del suo prossimo progetto cinematografico, che sarà ambientato in Toscana durante il Medioevo ed avrà come personaggio principale, ancora una volta, il gentil sesso. Questa volta: suore. Allacciate le cinture di sicurezza…

Lidia Cascavilla

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