Downton Abbey, ovvero l’elogio della sfumatura

Voto: 8 su 10

Questa sera, su Rete 4, verrà trasmessa la prima puntata della seconde stagione di Downton Abbey. Consigliare la visione di questa serie è forse superfluo per chi ha già avuto occasione di seguire il primo avvio di questa lussuosa produzione BBC, ma potrà valere, forse, per chi ancora non conosce le vicende della famiglia Crawley e delle tante persone che lavorano all’interno dell’enorme dimora vittoriana in cui è ambientata questa storia.

A raccontarne la trama si potrebbe pensare ad una soap opera in costume: all’inizio del XX secolo la figlia primogenita del Conte di Grantham deve accettare un matrimonio combinato per assicurarsi una rendita che le permetterà di continuare a sostenere il titolo nobiliare e gli antichi privilegi di cui il suo casato gode da generazioni. Schermaglie amorose e intrighi nobiliari sono, però, solamente le premesse di una narrazione “fuori moda” nel senso più lusinghiero ed originale del termine. Non siamo, infatti, di fronte ad un pretenzioso esercizio di stile per nostalgici dei film di James Ivory, ma ad una produzione elegante nello stile e garbata nella narrazione, dove, a differenza di tante serie contemporanee, – che sembrano fare a gara nel voler ridefinire i limiti di tollerabilità della visione televisiva – i sentimenti che legano i protagonisti delle differenti storie sono raccontati attraverso sguardi fuggevoli, si alimentano in attese e desideri, e culminano, sovente, in mani che hanno l’ardire di sfiorarsi o nei più casti dei baci. Vale la pena, oggi, seguire le vicende di persone per cui la forma non era un semplice orpello, e per le quali le parole rispettabilità e onore avevano un valore che non era pensabile mettere in discussione ? La risposta è certa, ed è un sì che non teme accuse di falso buonismo. Lo si guardi, se si crede, dandogli un valore di documento d’epoca: come affrontarono l’inizio del Secolo i nostri avi, quando l’arrivo del primo conflitto mondiale costrinse al crepuscolo non solo il dorato mondo dell’aristocrazia, ma ogni illusione di innocenza, ridefinendo ruoli sociali e antiche consuetudini ?

Se la confezione tecnica (fotografia – scenografia – costumi) è impeccabile, non meno lodevole è il lavoro di sceneggiatura: protagonisti e antagonisti non sono mai, come accade in tanta parte degli sceneggiati odierni, macchiette unidimensionali: luci ed ombre albergano in tutti i personaggi, e spesso capita di provare empatia per le sorti dell’odioso primo cameriere, e si crede sincero il pentimento della macchiavellica Mrs. O’Brien. Menzione di merito per Maggie Smith, impagabile nel ruolo della contessa vedova, e per la ritrovata Elisabeth McGovern: la sua Cora Crawley si esprime nel silenzio di sguardi intensi e vibranti, spalancati su quel mondo di cui oggi, forse, non è rimasta (abbastanza) memoria.

Marco Moraschinelli

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