Dalla National Gallery of Art di Washington a Roma: “Gemme dell’Impressionismo”, invito alla felicità

“La donna è senza dubbio una luce, uno sguardo, un invito alla felicità”. Così Baudelaire ne La peintre de la vie moderne, e proprio sulla scia di questa “felice” impressione si può pensare d’introdurre lo spirito che anima un’esposizione davvero unica. Perché ad essere dispiegata presso il Museo dell’Ara Pacis, nell’ambito del programma di scambio internazionale che porterà il Galata capitolino negli Stati Uniti, è molto più che una preziosa collezione di dipinti impressionisti e post-impressionisti; si direbbe piuttosto che ad esservi tracciato sia tutto uno spirito, un tracciato emozionale che nella modulazione intrinsecamente materica dei colori e delle forme, sfalda i contorni e accende la polpa delle visibilità segrete.

Ed è davvero  come se in ogni dipinto non vi fosse altro che una piccola felicità realizzata. “Ci si potrebbe annegare, ma questo è ciò che fa vivere” dice Pierre Bonnard, a proposito di una mutevolezza tutta “sentimentale” della visione (“Scale nel giardino dell’artista”, olio su tela, 1942-44). Non bastarono centosettanta tele al solo Monet in esilio sentimentale all’Argenetuil per dipingere l’atmosfera vibrante, il riverbero del sole, lo scintillio del fiume, il riflettersi sempre nuovo, sempre “un altro”, delle vele sull’acqua.

Una gioia donata, allora, che si articola in cinque sezioni tematiche: “La pittura en plain air”, “Ritratti e autoritratti”, “Donne amiche e modelle”, “La natura morta”, “Vuillard e Bonnard”, “L’eredità dell’Impressionismo”. La mostra (unica tappa europea) espone al pubblico dal 23 ottobre al 23 febbraio delle vere e proprie “gemme” rese ancor più preziose dal loro piccolo formato. Si tratta infatti di opere acquistate nel tempo per le proprie abitazioni private da alcuni importanti mecenati americani, tra questi il magnate Andrew W. Mellon (1885-1937) fondatore della National Gallery of Art di Washington che gelosamente ha custodito nelle sue viscere fino ad oggi queste opere.

Al di là di una lettura meramente cronologica, l’esposizione illustra alcune tra le più rilevanti trasformazioni della tradizione artistica del XIX secolo, non risparmiando alcune significative incursioni nell’età delle avanguardie del Novecento. Da Monet a Renoir, da Van Gogh a Bonnard, da Sisley a Manet, a Boudin e Toulouse-Lautrec,  sono sessantotto le opere che dal paesaggio al ritratto, dalla figura femminile alla natura morta, fino alle rappresentazioni della vita moderna “ci dicono” come socialmente sia nato l’impressionismo, dispiegando in queste sale quello che ci pare davvero essere un “piccolo”, prezioso, alfabeto della contemporaneità. Collezionismo come socialità allora: queste opere appartengono al popolo. Così, dovevano tornare al popolo le straordinarie visioni di un mondo che non è affatto stato creato una sola volta, ma come diceva Proust, tutte le volte in cui sia sopraggiunto un artista originale: “ (…) Nelle vie passano signore che non sono più quelle di prima perché ora sono altrettanti Renoir” (“Ritratto di giovane donna”, olio su tela, c. 1876; “Ritratto di Madame Monet e suo figlio”, olio su tela, 1874, “Ritratto di Madame Henriot”, olio su tela, c. 186). Dovevano tornare al popolo quelle campagne moderne dove “si  sente che vi è vissuto l’uomo, arando il suolo, dissodandolo, ridelineando orizzonti” (Zola).

Se allora ci sentiamo quasi affogare nelle pozze di colore di Odilon Redon, è solo perché è la visione “che si fa in noi”. Potrebbe essere questa, in fondo, l’estrema sintesi della rivoluzione attuata dalla pittura en plain air: la pittura dal vivo è testimonianza di una prensione visiva, direttamente dalla mano del pittore possiamo “sentire” che il mondo ha inciso in lui, almeno una volta, le cifre del visibile. Se le opere di tutti questi artisti  sono vive non è forse proprio perché questi artisti le hanno prese dalla vita?

Il caso di Cézanne qui presente con due straordinari dipinti “Natura morta con brocca e frutta” (olio su tela, c. 1900) e “Natura morta con pere” (187-79) è in questo senso esemplare. Cosa chiedeva in fondo il Maestro francese alla sua montagna di Sainte Victoire? Nessuno ha saputo dirlo meglio di Merleau-Ponty: “Di rivelare i mezzi, i mezzi visibili e nient’altro, con i quali essa si fa montagna sotto i nostri occhi.” (Cfr. “L’Oeil et l’Esprit”). Ecco allora il miracolo che scopre ancora sotto i nostri occhi una simile esposizione: una genesi segreta e febbrile delle cose che si fanno in noi, sulla soglia di una visione profana, giusto alle porte della modernità. Possibile che tutte quelle “nuvole firmamenti di raso nero e violaceo”, “orizzonti in lutto o grondanti metallo fuso”, tutte quelle profondità, quegli splendori (“Donne sulla spiaggia”, Eugéne Boudin, 1881) siano d’altronde imputabili alla sola “eloquenza dell’oppio”, per dirla ancora con Baudelaire? O forse non si tratta qui piuttosto di una rivelazione? Come un attraversamento sensuale, miracolo laico, dove ogni distinzione tra vedente e visibile, chi tocca e chi è toccato, è destinata a perdersi, a sfaldarsi assieme alla forma definita, alla linea? Rivelazione dell’arte solo volta a ricordarci ancora una volta che non occorre un senso muscolare per avere la voluminosità del mondo?

Patrizia Fantozzi

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