“Blade Runner 2049”, un film di Denis Villeneuve, la recensione

Blade Runner 2049 (id, Usa, 2017) di Denis Villeneuve con Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas, Robin Wright, Jared Leto, Sylvia Hoeks, Mackenzie Davis, Dave Bautista, Carla Juri, Lennie James, David Dastmalchian, Hiam Abbass, Barkhad Abdi

Sceneggiatura di Hampton Fancher, Michael Green, liberamente ispirato ai personaggi del romanzo “Il cacciatore di androidi” di Philip K. Dick

Fantascienza, 2h 32’, Sony/Warner Bros. Entertainment Italia, in uscita il 5 ottobre 2017

Voto: 7½ su 10

Più volte abbiamo avuto modo di riflettere sulla reale necessità, da parte dell’industria cinematografica contemporanea, di proporre remake e sequel di film che hanno fatto la storia del cinema. Blade Runner, il capolavoro distopico di Ridley Scott del 1982, terminava con la fuga del cacciatore di replicanti Rick Deckard (Harrison Ford) e dell’amata Rachel (Sean Young), essa stessa una replicante, verso un futuro migliore. Bastò il dettaglio di un origami a forma di unicorno a seminare il dubbio amletico (anche Deckard è un replicante?), mentre le musiche di Vangelis, sulle immagini panoramiche girate da Kubrick per l’incipit di Shining, congedavano definitivamente uno dei lungometraggi più iconici e amati del ventesimo secolo. Si può, a quasi 35 anni di distanza, riprendere il mito e continuare la storia?

blade-runner-2049_notizia-2Non esiste una risposta certa, sappiamo solo che l’onere e l’onore di provarci è toccato a Denis Villeneuve, regista canadese tra i più apprezzati del momento, alle prese con una sceneggiatura firmata dallo storico Hampton Fancher, che per primo, insieme a David Webb Peoples, tradusse il romanzo di Philip K. Dick “Il cacciatore di androidi” per Scott, e da Michael Green (Alien: Covenant, Logan: The Wolverine).

Nella Los Angeles del 2049, i vecchi modelli Nexus 8 della Tyrell sono dichiarati fuorilegge e superati dai replicanti Nexus 9, una nuova razza di forza-lavoro migliorata tecnicamente, senza limiti di durata e resa più affidabile e obbediente agli umani. Uno di loro è l’agente K (Gosling), un blade runner incaricato di “ritirare” i prototipi precedenti ancora in incognito: al termine di un incarico, però, scoprirà qualcosa che forse lo riguarda e che il tempo aveva sepolto, qualcosa che potrebbe ridefinire i confini della conoscenza fino a quel momento acquisita sui replicanti e, quindi, destinato a cambiare per sempre le sorti del mondo. Venuto a patti col proprio passato, K si ritroverà sulla strada di Deckard, sparito nel nulla da più di trent’anni.

Più che per le sue trite tematiche, Blade Runner 2049 sarà ricordato, a ragione, per l’altissimo risultato visivo raggiunto, probabilmente mai tanto notevole, anche grazie ai mezzi dispiegati per l’occasione. Denis Villeneuve, ereditando l’universo noir di Ridley Scott, si assume anche la gravosa responsabilità di non snaturarlo: la personale concezione futurista del regista, l’impressionante assetto scenografico di Dennis Gassner, le sonorità di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch e soprattutto l’indescrivibile concezione fotografica di Roger Deakins, capace di restituire i chiarori baluginanti e ogni sfumatura dell’oscurità, irrompono sul grande schermo con immagini di rara potenza. È in queste circostanze che il film si rende indimenticabile almeno quanto il suo predecessore, nell’intercettare quel magico punto di contatto tra la profondità del momento e la visionarietà della messa in scena, come nella sequenza d’amore che vede coinvolti K con l’ologramma Joi, che ha le fattezze della bellissima Ana de Armas, e la prostituta interpretata da Mackenzie Davis.

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Allo stesso tempo, il regista non può non proseguire il percorso esistenziale del film del 1982, con tutte le implicazioni etiche e bioetiche sulle intelligenze artificiali che ne conseguono. Così facendo, però, l’impianto narrativo si incaglia più volte in dilemmi sterili e reiterati, che nulla aggiungono in termini di originalità ma che, anzi, rischiano di spoetizzare il fascino commosso dell’originale.  Nella speranza di infondere spessore alla vicenda, lo script insegue suggestioni psicanalitiche edipiche quasi “wellesiane”, con un cavallino di legno che ha per l’agente K la stessa importanza che lo slittino Rosebud aveva per il Charles Foster Kane di Quarto potere; tra memoria reale e ricordi sintetici, volontà plagiata e libero arbitrio, il nocciolo della questione principale resta sempre ancorato alle ultime parole dell’androide Roy Batty di Rutger Hauer ma, inevitabilmente, sono interrogativi senza risposta, destinati a perdersi come lacrime nella pioggia.

Il vero limite di Blade Runner 2049 sta proprio nel voler spiegare troppo, nel cercare di rendere manifesto un dibattito di per sé invalicabile, che il film di Scott lasciava giustamente in sospeso per dare forma a una fantascienza di straordinari poesia. Qui invece il racconto paga eccessi didascalici e schematismi, quasi a dover necessariamente inquadrare il tutto nell’alveo di un’operazione di massa. Per fortuna Villeneuve ha la sensibilità giusta per confezionare un grandioso spettacolo per gli occhi e, nonostante tutto, anche per l’anima. È pur sempre l’appuntamento con un mito, vale la pena esserci.

Giuseppe D’Errico

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