“Barriere”, un film di Denzel Washington, la recensione

Barriere (Fences, Usa, 2016) di Denzel Washington con Denzel Washington, Viola Davis, Mykelti Williamson, Jovan Adepo, Stephen Henderson, Russell Hornsby

Sceneggiatura di August Wilson, dalla sua omonima opera teatrale

Drammatico, 2h 18’, Universal Pictures International Italy, in uscita il 23 febbraio 2017

Voto: 5 su 10

Tante volte si è parlato del cosiddetto “teatro filmato” al cinema. Barriere, diretto e interpretato da Denzel Washington, ne è un classico esempio. Il film è la trasposizione pedissequa, parola per parola, dell’imponente Fences del drammaturgo afroamericano August Wilson (prematuramente scomparso nel 2005), uno dei dieci testi che compongono il “Ciclo di Pittsburgh” che tanta eco ha avuto sui palcoscenici di Broadway, con cui lo stesso Washington si era già misurato nel 2010. Il protagonista di Malcolm X e Hurricane, da tempo a corto di bei ruoli e con una carriera registica mai davvero decollata, trasporta la piéce sul grande schermo rispettandone ogni virgola e assicurandosi la parte principale, quella di Troy Maxson.

53531Le “barriere” del titolo (ma sarebbe più corretto parlare di “recinti”) sono quelle di un cortile degli anni Cinquanta, che ha bisogno di confini visibili per delimitare un area di possesso. Al suo interno si dilungano incessanti i discorsi di una ex promessa del baseball, ora netturbino a Pittsburgh, che continua in maniera ossessiva a ribadire i suoi trascorsi per arrivare dove è arrivato. Lo ascoltano la moglie devota (Davis), il fratello ritardato (Williamson), un amico (Henderson) e i due figli, il primo avuto da una precedente relazione (Hornsby) e il secondo (Adepo), che accusa il padre di distruggere i suoi sogni sportivi. Ma, col passare del tempo, la smisurata prepotenza individualista di Troy arriverà a ferire nel profondo chi più ama…

Personaggio bigger than life, degno del furor latino e del tormento elisabettiano, Troy Maxson è l’emblema di un popolo, quello afroamericano, contraddittorio e appassionato, alla forsennata ricerca di un tentativo di riscatto e di un’affermazione sociale, ma ancora prigioniero dei propri steccati razziali e psicologici. La metafora è chiara, così come lo è il racconto di una famiglia schiacciata da una figura troppo ingombrante di padre tiranno. Resta solo assai discutibile la scelta di non affrontare una materia così poderosa in un modo cinematograficamente adeguato: l’assenza di sceneggiatura, l’assoluta rigidità di adesione al testo teatrale, la regia manierista e l’insopportabile bravura degli attori (Viola Davis da brivido) rendono l’intera operazione di una pesantezza disperante e, a tratti, intollerabile. La comunicazione tra teatro e cinema è possibile, ma è inconcepibile pretendere che l’uno possa adeguarsi senza alcuna modifica ai mezzi dell’altro.

Giuseppe D’Errico

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